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La parola poetica tra realtà e utopia: la formazione docenti con Giancarlo Pontiggia

15 Marzo 2023

Lo scorso 16 febbraio si è concluso il percorso trasversale di Formazione Docenti promosso quest’anno dalla Fondazione Sacro Cuore sul tema “Dentro la realtà”.

Dopo aver analizzato il tema generale e le sue implicazioni nel pensiero visivo e nella ricerca scientifica, l’incontro conclusivo è stato dedicato ad una riflessione sulla parola poetica, e in particolare sul contributo della poesia al tentativo dei docenti di accompagnare i ragazzi ad incontrare la realtà e a scoprirne il senso.

Per l'occasione abbiamo chiesto aiuto a Giancarlo Pontiggia, poeta e saggista, che, attraverso la sua voce e quella di alcuni grandi poeti del Novecento, ci ha guidati a comprendere più a fondo la consistenza e la ragion d’essere della parola poetica come fonte di attrattiva, di esperienza e di conoscenza anche in questo tempo di diffusa povertà semantica e simbolica.

L’adolescenza come territorio poetico per eccellenza

Pontiggia ha definito così la parola poetica: un’espressività che ha bisogno di confrontarsi continuamente con la realtà delle cose, del mondo e dell’uomo, ma che non può contentarsene. E che nell’adolescenza emerge come una forza tragica e riparatrice: non c’è poesia senza verità, senza disvelamento, ma neanche senza l’energia immaginosa che reiventa il mondo, pronuncia nomi felici.

Secondo Pontiggia, infatti, il territorio poetico per eccellenza è proprio l’adolescenza, sospesa tra la dimensione intuitivo-fantastica dell’infanzia e il fascino del pensiero argomentativo. L’urto fecondo tra le due forze del sentire e del pensare fa emergere tutta la complessità del mondo in cui viviamo, e la parola fa esperienza di tale complessità e vi si immerge proprio grazie alla poesia.

I tragici greci e i poeti del Novecento: dare voce alla complessità

Questa capacità della poesia di addentrarsi e dare voce alla complessità è, secondo Pontiggia, un’eredità fondamentale dell’esperienza dei tragici greci, che ha plasmato la nostra cultura occidentale.

I poeti tragici ci insegnano che esiste una realtà complessa, e che il compito della poesia è entrare in tale complessità, dar voce a diverse forme di verità, ugualmente degne e proprio per questo inconciliabili. La poesia tragica genera così la potenza del pensiero e gli interrogativi dell’uomo di fronte a tale irrisolvibile complessità, sospesa tra il sentire e l’argomentare.

Allo stesso modo, la poesia del Novecento italiano esprime e rappresenta questa tragica – poiché irrisolvibile – complessità del reale, ereditando la modalità poetica degli autori greci: è una poesia che non vuole lanciare un messaggio specifico, non vuole dire una verità, ma procede tra grandi dilemmi, pone grandi interrogativi che vanno letti dentro una dimensione complessiva. Le diverse posizioni dei poeti, che hanno modi diversi di guardare la realtà e di non contentarsi di essa, generano quello stesso dibattito tra verità ugualmente potenti e contrapposte della tragedia greca.

Dante Alighieri e Guido Cavalcanti: la forza della lingua nell’antitesi tra due verità

All’origine della nostra letteratura italiana, anche il progressivo distanziamento e poi l’antitesi tra le posizioni di Dante e di Guido Cavalcanti sull’amor cortese ci fanno sperimentare quella stessa tensione tra due verità potenti ma inconciliabili dentro la forza del linguaggio poetico.

L’amor cortese come drammatico fallimento e fonte di dolore di Cavalcanti si contrappone alla visione di Dante, che lo inserisce, lo innalza e lo consacra dentro la prospettiva cristiana.

Tale antitesi si gioca però dentro la forza espressiva e immaginosa della lingua, permettendoci di accedere e aderire a due verità opposte, e ampliare così il nostro pensiero sulla complessità dell’amore e della condizione umana: come sempre accade, la dimensione del divino passa attraverso quella dell’incertezza e della ricerca.

La poesia del Novecento tra realtà e utopia

E proprio l’antitesi tra più verità, la dimensione della ricerca, l’esplorazione della contraddizione sono le cifre che caratterizzano la poesia della modernità, nata in Francia con Baudelaire e in Italia con Leopardi: una poesia che entra nella contraddizione del reale.

Così, attraverso la voce di alcuni autori chiave della poesia novecentesca italiana, Pontiggia ha descritto tale viaggio della parola nella contraddizione.

Come la parola di Mario Luzi, evocata nella meta-poesia “Vola alta parola, cresci in profondità”, che si è consumata nel simbolismo europeo, che ha perso la corrispondenza tra le cose, la realtà, e il loro nome. Una poesia che deve farsi parola dell’ineffabile ma che non può disinteressarsi della realtà quotidiana.

Cinquant’anni prima Carlo Betocchi, nella raccolta “Realtà vince sogno”, mette in atto una dialettica tra realtà e utopia, una ricerca della verità e della dimensione celeste tra visibile e invisibile. E, in modo del tutto moderno, si avvale di quel simbolismo medievale per il quale la realtà quotidiana ed effimera porta in sé una sua completezza più profonda. Grazie alla forza evocativa della parola poetica, tale visione ci parla a qualsiasi livello, laico o religioso.

Per il laico Giorgio Caproni, d’altro canto, il tema del nulla è il centro concettuale della poesia. Ma anche in lui, come in Luzi, c’è sempre il balenare di altro, di una luce speciale non calcolabile, e così la poesia assume sempre le dimensioni di una ricerca, seppur fallimentare. Nel paradosso la poesia di Caproni ricerca sempre la dimensione dell’infinito, del divino, pur chiudendosi sul nulla.

Perché la poesia del Novecento, essenzialmente drammatica, è poesia della ricerca, dove visioni opposte contribuiscono a delineare una lettura unitaria, anche se precaria, di un reale contraddittorio e complesso.

In tale drammatico percorso i poeti italiani del Novecento – dopo secoli di eredità petrarchesca - si volgono a Dante e alla sua straordinaria capacità di coniugare il reale con l’utopico, il visibile con l’invisibile, perché sentono lo struggimento di un desiderio negato, che trova in Dante l’esperienza di un cosmo fatto per l’uomo, dove tutto ha il suo posto.

Così è la poesia dantesca di Vittorio Sereni “Intervista a un suicida”, costruita sui riferimenti danteschi nel dialogo tra il poeta e l’anima dell’amico morto. Ma se in Dante il colloquio con le anime è sempre produttivo, qui il dialogo porta solo frammenti confusi, forse perché risposte a domande sbagliate.

 



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